TEATRO GRADO ZERO
Al ground zero del teatro, con la
possibilità di sparire dall’orizzonte dei comportamenti umani.
Non lo pensavamo possibile. Ci siamo
stupiti all’inizio del lockdown, la chiusura che ha coinvolto
progressivamente i vari paesi del pianeta per fronteggiare la natura
di un virus in grado di proliferare passando da un corpo a un altro,
da un individuo a un altro.
Ci siamo stupiti, siamo rimasti
all’inizio increduli, ma ci siamo chiusi nelle nostre abitazioni
osservando le direttive impartite dai nostri governi, confinati in
stanze e ambienti di una casa che vivevamo solo in parte, nel fine
settimana o di sera al rientro dal nostro lavoro, ma comunque con la
possibilità di andare e venire a nostro piacere e volontà.
Ci è sembrato di essere parte di un
film o di una narrazione collettiva messa in atto dai mezzi di
informazione pensando che poi, dopo, una volta finito tutto, le cose
sarebbero tornate come prima.
Abbiamo sentito gridare dalle finestre
delle città e delle megalopoli canti, saluti e incoraggiamenti.
Abbiamo creato slogan preceduti dall’ormai ineludibile hashtag per
confortarci attraverso le varie piattaforme di social media, per
farci coraggio, per raccontarci che tutto passerà, che le attività
umane torneranno alla normalità, dopo che la tempesta perfetta del
virus sarebbe passata.
Ma non abbiamo mai pensato o immaginato
che dopo la tempesta perfetta avremmo dovuto fare i conti con un
nuovo comportamento individuale e sociale. Non abbiamo mai pensato di
sperimentare la fragilità psicofisica dell’essere umano in questo
modo. Ma la natura ha fatto il suo corso, come lo ha sempre fatto
dalla comparsa dell’uomo sul pianeta terra, mettendo a dura prova
alcune delle specie viventi fra cui l’uomo.
Abbiamo sempre pensato che saremmo
tornati ‘alla normalità’, perché non ci sembrava possibile
immaginare un futuro in cui la distanza fisica fra individuo e
individuo potesse mutare. In fondo la prossimità fisica era ed è un
dato acquisito del nostro comportamento individuale e sociale.
Così come non avremmo mai potuto
immaginare che il contatto fisico con un estraneo attraverso anche
solo una stretta di mano potesse diventare oggetto di studio e di
analisi per evitare un ‘contagio’. Una semplice stretta di mano,
non un abbraccio, un bacio sulla guancia, ma anche solo una distanza
fra corpo e corpo, prima ancora di un contatto.
Ora ci siamo, siamo al grado zero.
Dobbiamo reinventare il nostro
comportamento, adattare il modo in cui vivremo a nuove regole,
iniziando a consegnare i nostri dati sensibili, come quelli che
riguardano la nostra salute, a società pubbliche o private che le
gestiranno attraverso algoritmi per garantirci la sicurezza a scapito
delle nostre libertà.
E così il teatro ha sperimentato il
suo grado zero, l’abbattimento, lo spegnimento per un lungo
periodo. Il periodo in cui sto scrivendo questi pensieri.
E quelli di noi che il teatro lo hanno
fatto, dedicando una vita professionale alla produzione di teatro e
di spettacolo dal vivo e, negli anni, hanno creato aziende culturali,
con centinaia di migliaia di lavoratori connessi a questo lavoro, si
trovano a non riuscire a capire questo nuovo futuro prossimo. Si
trovano a non riuscire a vedere un’utilità della propria vita
professionale prima e artistica poi, perché dopo la tempesta
perfetta del virus, non sarà come in un dopoguerra in cui un paese
ricostruisce le case, le fabbriche, gli ospedali, le scuole ma anche
i teatri.
Il nostro paese è conosciuto nel mondo
intero per il suo enorme patrimonio artistico e culturale, di cui
anche il teatro fa parte. Ma il teatro, nel nostro paese, è sempre
stato il più ‘invisibile’ fra le arti, perché legato a una
lingua che non è mai diventata nazionale, ma soprattutto perché
legato a una politica culturale che non ha mai realmente accettato e
non si è mai realmente occupata di valorizzare fino in fondo il
patrimonio artistico e culturale del proprio paese. Paradossalmente
lo ha fatto negli ultimi anni di più con il cibo, perché è una
merce di scambio. Una politica, dal dopoguerra in poi, che non è mai
stata all’altezza della bellezza e dell’arte del paese in cui ha
proliferato e continua a proliferare. Una politica che non è stata
in grado di comprendere fino in fondo il rapporto fra corpo e
spirito.
Quindi se il teatro era già
‘invisibile’ prima della tempesta, ora rischia seriamente di
‘spegnersi’ se non riesce a intuire quale possa essere la strada
da percorrere per riattivare ‘la produzione’ di teatro nel nostro
paese, evitando la distruzione di centinaia di migliaia di posti di
lavoro: i lavoratori dello spettacolo appunto.
Chi fa teatro in Italia è sempre stato
animato da un’ingenuità di fondo, che non giudico propriamente in
modo negativo, ed è stata quella di pensare di essere necessario, ma
non ha mai realmente capito quale poteva essere la necessità della
propria “esistenza” nel mondo e nella società del paese in cui
viviamo.
Era una necessità individuale dei
singoli artisti? Era una necessità creativa di una generazione che
si contrapponeva a un’altra generazione nel momento massimo delle
trasformazioni sociali degli anni ’60? Si potrebbe continuare
all’infinito a farsi domande sulla necessità del teatro nel paese
in cui viviamo. E così si potrebbe dare le rispettive risposte a
ogni domanda, ma senza sfiorare minimamente l’essenza della propria
necessità.
Ora il punto è che - in modo anche
commovente - il teatro sta gridando nel vuoto.
Sta gridando coperto dal rumore di
altre voci e urla che cercano disperatamente di salvare la propria
economia, l’economia di una comunità, di produzione, di lavoro, e
di necessità primarie che si profilano nell’immediato futuro.
Necessità primarie di cui ‘il teatro’ non fa parte.
Il teatro si è legato da sempre alla
politica, ai politici, a quei politici che non sono all’altezza
dell’arte e della bellezza del nostro paese. Il teatro si è legato
al sistema politico servendo da ‘comodo o incomdo’ a seconda dei
periodi e momenti storici, diventando di fatto giullare e menestrello
dei signori della politica, sia a livello locale che nazionale.
Ora che siamo nel nuovo futuro, e che
il teatro è nel suo vero e commovente ground zero, il teatro può
urlare quanto vuole, ma nessuno lo ascolterà.
Purtroppo il primo a non sentire la
voce del teatro in Italia è proprio il teatro stesso.
Io personalmente il futuro lo vedo
possibile in una ‘nuova povertà’, che non è umiliazione, ma
coscienza, concretezza e consapevolezza della propria esistenza e
essenza, evitando parole come ‘utilità’, ‘necessità’,
‘urgenza’ e simili, e dando valore a parole come uguaglianza,
empatia, umiltà, pensiero, abbattendo il più possibile il tasso di
vanità.
“Il teatro non è indispensabile.
Serve a attraversare le frontiere fra te e me”, scriveva Jerzy
Grotowski.
Ora, che siamo al grado zero, non ci
resta che cercare di capire - tutti noi del teatro - quali sono le
frontiere da attraversare realmente, a iniziare da quelle che abbiamo
costruito intorno a noi - proprio noi che il teatro lo facciamo.
Francamente ho i miei dubbi che
riusciremo veramente a farlo perché i comportamenti umani sono i più
difficili da cambiare, a meno che non intervenga una tempesta
perfetta.
Antonio Syxty
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