PICCOLO TEATRO GRASSI DI MILANO
"ZOO"
DI SERGIO BLANCO
In scena fino al 5 maggio, lo spettacolo, prima produzione del Piccolo diretta dal regista franco-uruguaiano, racconta il complesso intreccio che lega uno scrittore, una veterinaria e un gorilla in cattività.
I video sono realizzati da Miguel Grompone, le scene da Monica Boromello; i costumi sono firmati da Gianluca Sbicca, le luci curate da Max Mugnai, le musiche e il suono da Gianluca Misiti.
Il testo dello spettacolo è pubblicato da Il Saggiatore nella nuova collana editoriale del Piccolo Teatro di Milano. In libreria dal 31 marzo, con la traduzione di Angelo Savelli e la prefazione di Roberto Marchesini. Il volume verrà presentato durante il periodo di permanenza dello spettacolo (data in via di definizione).
Zoo descrive l’incontro tra uno scrittore (Lino Guanciale) affascinato e al tempo stesso turbato dalla figura di Edda Ciano – figlia di Mussolini, una veterinaria (Sara Putignano) e il gorilla (Lorenzo Grilli) che vive nel laboratorio della dottoressa. Se inizialmente il drammaturgo – alter ego di Sergio Blanco – incontra il gorilla con il solo scopo di scrivere un testo sulle scimmie, man mano che la narrazione procede sotto lo sguardo scientifico della veterinaria, la relazione fra i due inizia a intensificarsi sempre di più, fino a sfociare in una “storia d’amore”, assumendo una dimensione passionale che porta entrambi a scivolare nel desiderio erotico, mettendo in discussione ogni certezza e distinzione tra umano e animale, addestrato e selvaggio, “civilizzato” e “barbaro”.
Fautore della tecnica narrativa dell’autofinzione, attraverso la quale la materia grezza del proprio vissuto è trasformata in finzione, l’autore e regista Sergio Blanco ha creato il testo allo zoo di Parigi, stando realmente accanto a un vero gorilla: “Avevo bisogno della sua vicinanza per poter scrivere – ha dichiarato –. Ogni volta che andavo a vederlo, al giardino zoologico, il mio battito cardiaco aumentava, man mano che mi avvicinavo al recinto. Appena arrivava, ci guardavamo, facevamo dei gesti, poi, a poco a poco, cominciavo a scrivere.
Un giorno ho compreso che non stavo scrivendo su di lui ma per lui, e questo mi affascinava. Un altro giorno, i veterinari mi hanno spiegato che anche la frequenza cardiaca dell’animale accelerava quando mi vedeva avvicinarsi. Mi sono dovuto assentare per due settimane. Quando sono tornato, è venuto davanti a me e ha pianto. Ho pianto anch’io. Ed è stato lì, in quel preciso momento, che ho capito che entrambi ci stavamo dirigendo verso qualcosa di innominabile. L’unica cosa che potevo fare era abbandonarmi, cioè darmi anima e corpo alla scrittura. Ed è ciò che ho fatto”.
Piccolo Teatro Grassi (via Rovello 2 – M1 Cordusio), dal 26 marzo al 5 maggio 2022
Zoo
scritto e diretto da Sergio Blanco, traduzione Angelo Savelli
video Miguel Grompone, scene Monica Boromello, costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai, musiche e suono Gianluca Misiti
con Lino Guanciale, Sara Putignano, Lorenzo Grilli
aiuto regia Teresa Vila, preparazione vocale a cura di Laura Raimondi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Foto di scena Masiar Pasquali
Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16.
Lunedì, riposo. Sabato 16, domenica 17 aprile e 1° maggio riposo.
Le recite del 2, 3, 9, 12, 23, 30 aprile, 3, 4 e 5 maggio sono sovratitolate in inglese.
Durata: 2 ore senza intervallo
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro
Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org
Oltre la scena | Il Teatro del Giorno Dopo
#Sguardi paralleli
Zoo(m)
Teorema (1968), Morte a Venezia (1971), La signora della porta accanto (1981), E.T. l’extraterrestre (1982). Quattro titoli, scelti in dialogo con Sergio Blanco, a indagare sullo schermo il serbatoio cinematografico e immaginifico che ha influenzato Zoo e il suo autore. In collaborazione con Anteo Palazzo del Cinema
Lunedì 28 marzo, 4 aprile, 11 aprile, 2 maggio
(la proiezione del 28 marzo sarà preceduta da un’introduzione alla visione di Sergio Blanco
#Walk_Talk
Senza gabbie
Un racconto dei Giardini Pubblici “Indro Montanelli”, sede storica dello zoo di Milano, cadenzato dalle letture degli attori della compagnia. In collaborazione con Politecnico di Milano
Domenica 3 aprile, 10.30
#Parole in pubblico
Incontro con la compagnia
Mercoledì 13 aprile, ore 17.30
Liberare il desiderio
Conversazione tra Sergio Blanco (in collegamento) e gli psicanalisti
del Centro Milanese di Psicanalisi Cesare Musatti.
Mercoledì 27 aprile, ore 17.30
Laddove non diversamente specificato, gli appuntamenti sono a ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria.
Info e prenotazioni su piccoloteatro.org
La fascinosa parabola artistica di Sergio Blanco – voce drammaturgica, nonché registica, tra le più apprezzate e originali del panorama teatrale contemporaneo – vive di un confronto sempre rinnovato con la cosiddetta pratica dell’autofinzione, in un inestricabile intreccio di verità e menzogna, secondo un gioco di disvelamento e dissimulazione della propria identità che, nel corso degli anni, ha prodotto un ricco catalogo di storie spiazzanti e seducenti. Con Zoo, muovendo ancora una volta da un’esperienza personale, riplasmata però grazie al potere della creatività, Blanco spinge questo corpo a corpo con l’orizzonte del “sé” al di là – o, meglio, alla radice – della condizione umana attraverso l’intimo rispecchiamento del protagonista negli occhi di un gorilla. D’altronde, come ben sapeva Alberto Savinio, «radice del dramma» è «il lunghissimo conflitto tra uomo e Dio (e suoi surrogati). Uomo contro uomo non fanno dramma, ma appena una rissa». In questo caso, la presenza numinosa è data proprio dall’incontro con il gorilla in gabbia, la cui prigionia fisica trova un peculiare riflesso nelle anguste e oscure stanze della mente dell’alter ego dell’autore: ne nasce un’opera commovente, che – nello snodarsi lungo molteplici maschere (il mistero dell’erotismo e del desiderio, l’eterna lotta tra passione e razionalità, la relazione con la dimensione animale, propria e altrui) – si alimenta della bravura delle figure attoriche coinvolte (Lino Guanciale, Sara Putignano, Lorenzo Grilli) e di una raffinata architettura complessiva dell’allestimento.
Claudio Longhi
La bellezza del centauro
Conversazione con Sergio Blanco
(dal programma di sala dello spettacolo, a cura dell’Ufficio Edizioni del Piccolo Teatro di Milano)
Sergio Blanco, da dove è nata l’idea per scrivere Zoo?
È molto difficile individuare l’istante esatto in cui un’idea si affaccia alla mente: a volte scaturisce da un episodio particolare, ma, nella maggior parte delle situazioni, capita che un giorno ci si ritrovi a scrivere un testo, quasi per caso. Nello specifico, ero interessato a una storia d’amore tra due esseri viventi, non necessariamente entrambi umani; ho contattato uno zoo, un’equipe di veterinari e ho cominciato a osservare un gruppo di primati. Tutto accadeva oltre tre anni fa, nel 2018, ma credo che Zoo sia un testo che, senza saperlo, stavo scrivendo da quarantacinque anni. Volevo scrivere sull’amore… ma come possiamo parlare d’amore, dopo Shakespeare, Tolstoj, Leopardi? Mi è parso che una possibilità percorribile fosse una storia d’amore in cui l’oggetto del desiderio non fosse un’altra persona ma un animale. Non perché volessi essere originale a tutti i costi – concetto che rifiuto, perché non ho bisogno di commercializzare un prodotto – ma perché così potevo ottenere un risultato che mi mettesse al riparo dal cliché del legame amoroso.
Sei conosciuto come uno dei massimi esponenti della tecnica dell’autofinzione. Ci spieghi che cos’è?
La poetica dell’autofinzione, come mi piace chiamarla, cioè narrare in prima persona le storie che si vanno raccontando, senza che si stia scrivendo una reale autobiografia, non è una moda recente, ma è una tecnica di scrittura praticata da moltissimo tempo: altro non è che l’esplicitazione del motto socratico conosci te stesso. Il padre dell’autofinzione per me è Sant’Agostino nelle sue Confessioni, seguito da Dante, Santa Teresa d’Avila, Montaigne dei Saggi, Rousseau, Stendhal, da tutti gli esperimenti analoghi del XX secolo. Il termine che impieghiamo oggi appare negli anni Settanta, coniato dal francese Serge Doubrovsky, teorizzatore di questa tecnica che egli applica al romanzo. Per quanto mi riguarda, sono circa dieci anni che ho iniziato ad adoperarla e a sperimentarla in teatro e mi piace sempre specificare che, contrariamente a quel che si possa pensare, l’autofinzione non è un atto di arroganza né di narcisismo: è tutto l’opposto! Jean-Luc Godard affermava che, prima di parlare degli altri, bisognerebbe trovare il coraggio di parlare di sé. Chris Marker diceva che utilizzare la prima persona è un atto di umiltà, perché tutto quello che l’artista ha da offrire è la propria storia. Beckett asseriva che la vita è troppo corta per scrivere di qualcos’altro che non siamo noi stessi… Anche io la penso così: parto dalle mie lacrime per parlare del diluvio, dalla mia piccola storia per connettermi alla storia di tutti.
In questo spettacolo, così come nei due che vedremo nel corso del Festival internazionale di maggio – ovvero El bramido de Düsseldorf e Cuando pases sobre mi tumba – il tema dell’amore sembra andare sempre di pari passo con quello della morte…
“Sono innamorato”, “ho paura di morire”: credo che l’arte non parli d’altro che di amore e morte. In questa mia trilogia – i due titoli che hai citato e Zoo – i due temi sono strettamente intrecciati. Questo perché mi interessa andare in cerca delle zone oscure dell’amore e ugualmente dell’erotismo che è implicito nella morte, dell’attrazione che la morte esercita su di noi, un’attrazione prima di tutto “cronologica”, dal momento che è un appuntamento al quale tendiamo inevitabilmente tutti… Esiste una bellezza della morte, pensa a I fiori del male di Baudelaire, come esiste un orrore dell’amore, vedi Romeo e Giulietta di Shakespeare: eros e thanatos si rincorrono da sempre.
Sergio Blanco, da dove è nata l’idea per scrivere Zoo?
È molto difficile individuare l’istante esatto in cui un’idea si affaccia alla mente: a volte scaturisce da un episodio particolare, ma, nella maggior parte delle situazioni, capita che un giorno ci si ritrovi a scrivere un testo, quasi per caso. Nello specifico, ero interessato a una storia d’amore tra due esseri viventi, non necessariamente entrambi umani; ho contattato uno zoo, un’equipe di veterinari e ho cominciato a osservare un gruppo di primati. Tutto accadeva oltre tre anni fa, nel 2018, ma credo che Zoo sia un testo che, senza saperlo, stavo scrivendo da quarantacinque anni. Volevo scrivere sull’amore… ma come possiamo parlare d’amore, dopo Shakespeare, Tolstoj, Leopardi? Mi è parso che una possibilità percorribile fosse una storia d’amore in cui l’oggetto del desiderio non fosse un’altra persona ma un animale. Non perché volessi essere originale a tutti i costi – concetto che rifiuto, perché non ho bisogno di commercializzare un prodotto – ma perché così potevo ottenere un risultato che mi mettesse al riparo dal cliché del legame amoroso.
Sei conosciuto come uno dei massimi esponenti della tecnica dell’autofinzione. Ci spieghi che cos’è?
La poetica dell’autofinzione, come mi piace chiamarla, cioè narrare in prima persona le storie che si vanno raccontando, senza che si stia scrivendo una reale autobiografia, non è una moda recente, ma è una tecnica di scrittura praticata da moltissimo tempo: altro non è che l’esplicitazione del motto socratico conosci te stesso. Il padre dell’autofinzione per me è Sant’Agostino nelle sue Confessioni, seguito da Dante, Santa Teresa d’Avila, Montaigne dei Saggi, Rousseau, Stendhal, da tutti gli esperimenti analoghi del XX secolo. Il termine che impieghiamo oggi appare negli anni Settanta, coniato dal francese Serge Doubrovsky, teorizzatore di questa tecnica che egli applica al romanzo. Per quanto mi riguarda, sono circa dieci anni che ho iniziato ad adoperarla e a sperimentarla in teatro e mi piace sempre specificare che, contrariamente a quel che si possa pensare, l’autofinzione non è un atto di arroganza né di narcisismo: è tutto l’opposto! Jean-Luc Godard affermava che, prima di parlare degli altri, bisognerebbe trovare il coraggio di parlare di sé. Chris Marker diceva che utilizzare la prima persona è un atto di umiltà, perché tutto quello che l’artista ha da offrire è la propria storia. Beckett asseriva che la vita è troppo corta per scrivere di qualcos’altro che non siamo noi stessi… Anche io la penso così: parto dalle mie lacrime per parlare del diluvio, dalla mia piccola storia per connettermi alla storia di tutti.
In questo spettacolo, così come nei due che vedremo nel corso del Festival internazionale di maggio – ovvero El bramido de Düsseldorf e Cuando pases sobre mi tumba – il tema dell’amore sembra andare sempre di pari passo con quello della morte…
“Sono innamorato”, “ho paura di morire”: credo che l’arte non parli d’altro che di amore e morte. In questa mia trilogia – i due titoli che hai citato e Zoo – i due temi sono strettamente intrecciati. Questo perché mi interessa andare in cerca delle zone oscure dell’amore e ugualmente dell’erotismo che è implicito nella morte, dell’attrazione che la morte esercita su di noi, un’attrazione prima di tutto “cronologica”, dal momento che è un appuntamento al quale tendiamo inevitabilmente tutti… Esiste una bellezza della morte, pensa a I fiori del male di Baudelaire, come esiste un orrore dell’amore, vedi Romeo e Giulietta di Shakespeare: eros e thanatos si rincorrono da sempre.
Tornando a Zoo, è interessante osservare come la “seduzione” di Sergio nei confronti del gorilla Tandzo passi attraverso la condivisione di un gran numero di opere d’arte, romanzi, quadri, brani musicali. Perché?
In primo luogo, perché volevo raccontare un amore mediato dalla scrittura, rifacendomi al Medioevo e al Romanticismo, epoche in cui le relazioni amorose vivevano attraverso scambi di lettere e pagine di poesia, ma intendevo anche collegarmi al presente: penso che oggi ci troviamo di nuovo in un’epoca “epistolare”. Gli adolescenti, i giovani scrivono moltissimo, più di quanto non facesse la mia generazione alla loro età. Quando si chiudono nelle loro stanze, pensiamo che stiano solo caricando foto su Instagram o sui diversi social, mentre spesso stanno scrivendo sui gruppi, agli amici, nelle chat o anche all’oggetto del loro desiderio: stanno stabilendo relazioni per mezzo della scrittura. Non dimentichiamo che in Zoo sono due le storie che vivono attraverso la condivisione di opere d’arte: l’amore tra Sergio e Tandzo, ma anche la profonda amicizia che va crescendo tra Sergio e la Dottoressa Rozental, individui solitari in un momento difficile delle rispettive vite. E, in secondo luogo, compare una seconda dimensione dell’amore, l’amore per la specie umana, che, nonostante tutto, è sempre straordinaria: abbiamo dipinto la Primavera del Botticelli, abbiamo sequenziato il dna, creato musica sublime come quella di Schubert, abbiamo potuto scrivere la Divina Commedia, siamo andati sulla luna… Zoo è una dichiarazione d’amore per il mondo e per la specie umana, che però è stata anche capace di inventare la ghigliottina, di creare Auschwitz, di alimentare venticinque secoli di patriarcato oppressivo e violento, di produrre Hiroshima o la guerra abominevole in cui siamo immersi da settimane… Però ci sono anche i romanzi di Virginia Woolf, antropologi come Margaret Mead, pittori come Frida Kahlo, architetti come Brunelleschi, una ragazzina straordinaria come Anne Frank… Mentre ti parlo, ho davanti a me l’immagine meravigliosa dell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler e penso che anche noi siamo “servitori di due padroni”, della bellezza e dell’amore, ma anche dell’orrore e della violenza.
Hai parlato di Auschwitz e inevitabilmente ho pensato a Edda Ciano, il quarto strano personaggio di Zoo…
L’apparizione di Edda Ciano dialoga molto con El bramido de Düsseldorf, che prima abbiamo citato. Lì il personaggio era attratto da un personaggio nefasto della cronaca nera tedesca, Peter Kürten, un serial killer del XX secolo, che compì delitti innominabili nel bosco di Grafenberg, appena fuori Düsseldorf. In Zoo la fascinazione sul protagonista è esercitata da un serial killer “di massa”, appartenente a un periodo tra i più vergognosi e sinistri dell’umanità. Tuttavia, non era tanto la figura di Mussolini a interessarmi, quanto la sua discendenza e questo per due motivi.
Primariamente, perché in tutto il testo è presente il tema dei padri e dei figli, sempre vissuto in maniera tragica e conflittuale: il gorilla Tandzo è figlio di un padre ucciso, il personaggio di Sergio discende da immigrati italiani che sono fuggiti dalla guerra verso il Sud America, ma è a sua volta privo di discendenza, la dottoressa è la nipote di un sopravvissuto ai lager nazisti e ha perso il figlio in un incidente… Secondariamente, perché la cosa più inquietante del fascismo, per me, non è Mussolini – che è un personaggio storico circoscritto a un’epoca – ma l’eredità di quel sistema, riattivata dal neocapitalismo ultra liberale della Thatcher e di Reagan, e perfezionatasi negli ultimi anni: quando i grandi marchi del mercato globale promettono felicità somministrando distruzione a piccole dosi, parlare di fascismo non è solo parlare di Mussolini, ma significa riflettere su una forma di neofascismo che si è infiltrata tra le pieghe della nostra società.
Com’è stato lavorare con attori italiani in una lingua non tua?
Tutti e tre mi hanno colpito profondamente per professionalità, intelligenza e sensibilità, qualità per me fondamentali in un attore. Io non penso all’interprete come a una marionetta, né al teatro come a un luogo dove il drammaturgo e il regista sottomettono al proprio volere tutti quanti: la produzione di uno spettacolo è sempre un risultato collettivo. In questo senso, Lino Guanciale appartiene a quella schiera di interpreti con cui si ha la sensazione, da autori, di non aver scritto un testo, ma che quelle parole stiano prendendo forma nel preciso istante in cui è lui a pronunciarle. È un attore che tocca il midollo epistemologico e antropologico del nostro lavoro. Sara Putignano è un’attrice che produce dipendenza dello sguardo: ed è ciò che, in fondo, cerchiamo a teatro, essere “obbligati” a guardare. Durante le prove, non riuscivo a staccarmi da lei, perché ti sottomette all’imperio dello sguardo, tanto geniale, tanto straordinario, tanto sottile e intelligente è ciò che accade in scena. Lorenzo Grilli dimostra grande disciplina e rigore. Il suo lavoro è consistito nel restituire contemporaneamente l’anima e la meccanica del movimento di un gorilla. Per questo, insieme, abbiamo ricreato, in maniera quasi “stanislavskiana”, una rete interiore di emozioni che andassero poi ad animare la partitura di azioni all’interno della gabbia.
Per traghettare il testo dallo spagnolo all’italiano ho lavorato con Angelo Savelli e Teresa Vila, con Savelli per la traduzione della versione pubblicata in collaborazione con il Saggiatore, con Vila per il copione, oggetto di un quotidiano lavoro di riscrittura, in dialogo con il palcoscenico. Teresa è stata la mia collaboratrice, a livello testuale e per la messa in scena dello spettacolo. Ha lavorato insieme a me come traduttrice, come interprete linguistica e anche come assistente alla regia. Tradurre, sia per lo scritto sia per la conversazione, non è mai semplicemente cercare il corrispettivo di una parola in un’altra lingua, è andare in cerca del dna di una parola per ricostruirlo in un’altra lingua: Teresa ha fatto questo per me.
Sembra che la musica svolga un ruolo tutt’altro che secondario, nello spettacolo. Perché hai scelto determinati brani?
La musica è strettamente connessa all’illuminazione e alla scenografia dello spettacolo. Al musicista Gianluca Misiti, al light designer Max Mugnai e alla scenografa Monica Boromello ho chiesto di lavorare su un immaginario freddo, nordico, glaciale, che si opponesse all’habitat del gorilla, che vive in una zona subequatoriale, tropicale, ricca di vegetazione, calda, dove l’aria è carica di umidità. Con Max abbiamo cercato una luce fredda, adatta a illuminare il lavoro di Monica, alla quale ho chiesto spazi essenziali, severi, anche loro, in qualche modo, glaciali. Lo spettacolo doveva essere accompagnato da una colonna sonora con regole precise: dovevano essere canzoni scritte in un’altra lingua, quindi in inglese, e di autori nordici. I brani provengono da Scozia, Irlanda, Norvegia – oltre all’Austria di Schubert – e si contrappongono tanto al mondo del gorilla, quanto al clima temperato dove si svolge la vicenda raccontata, come anche al clima secco della zona del Rio de la Plata, della quale è originario il personaggio di Sergio.
Con Gianluca Sbicca, il costumista, ci siamo mossi sempre in questo ambito, ovvero nelle zone temperate del Rio de la Plata e in Europa, per la nostra ricerca sull’abbigliamento dei personaggi, mentre a Miguel Grompone, il videomaker, è spettato il compito di lavorare con le immagini per legare tra loro questi tre ambienti geografici e così raccontare la storia. Un’ultima nota sulla musica: tutte le canzoni dovevano parlare di lacrime, perché lo spettacolo parla della commozione, un sentimento che accomuna l’uomo ai primati. I gorilla piangono, sai?
Concludiamo con la domanda delle domande: sei uno scrittore che ha scelto il teatro. Perché?
Essere drammaturgo significa, di nuovo, essere “servitore di due padroni”, della letteratura, che porta con sé tutte le regole e i tempi del mondo editoriale, e della scena, dove la parola cerca la carne: il compito del drammaturgo è stare nel mezzo. Ho avuto una formazione letteraria, filologica, classica, ma sono sempre stato attratto dal teatro. Amo questa ibridazione che è la storia della mia vita, sempre sospeso tra due paesi – Uruguay e Francia –, tra due continenti – America Latina ed Europa –, tra due lingue, tra mondo accademico e teatro. Elsa Morante, e mi piace concludere con le parole di una donna, parlava della bellezza del centauro, che non è né uomo né animale, ma le due cose insieme. Ecco, fare il drammaturgo mi permette di essere un centauro.
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