PICCOLO TEATRO STUDIO MELATO DI MILANO
"RITRATTO DELL'ARTISTA DA MORTO"
(ITALIA '41-ARGENTINA '78)
CON MICHELE RIONDINO
Scritto e diretto da Davide Carnevali, artista associato del Piccolo, Ritratto dell’artista da morto debutta in prima nazionale, al Teatro Studio Melato, giovedì 16 marzo (ore 19.30). Interpretato da Michele Riondino, con le scene e i costumi di Charlotte Pistorius e le musiche di Gianluca Misiti, lo spettacolo è una nuova produzione del Piccolo, in coproduzione con Comédie de Caen - CDN de Normandie, Comédie, Centre dramatique national de Reims, Théâtre de Liège.
Che relazione esiste tra la sparizione di un dissidente politico durante la dittatura militare argentina del 1978 e quella di un pianista ebreo nell’Italia del 1941?
Tra autobiografia e finzione, una riflessione sulla barbarie dei totalitarismi che ha attraversato il Novecento.
Michele Riondino, diretto da Davide Carnevali, porta davanti al pubblico un episodio di vita che oscilla tra l’autobiografia e l’invenzione narrativa e si tende, storicamente, tra due regimi dittatoriali: quello argentino (1976-1983) e, di riflesso, quello nazionalsocialista (1933-1945).
Si racconta, in scena, dell’apertura di un caso giudiziario riguardante un appartamento a Buenos Aires, acquistato da un presunto parente dell’attore nel 1978, ma espropriato a un dissidente politico durante la dittatura militare - motivo per cui la cui famiglia della vittima ne chiede oggi la riassegnazione. Per assistere al processo, ma anche con l’intenzione di lavorare a uno spettacolo di teatro documentario basato su questi fatti, Riondino viaggia insieme al regista, alla volta di Buenos Aires, scoprendo che l’appartamento in questione era appartenuto a un compositore di origini italiane.
Inizia così una ricerca a ritroso nel tempo, che tenta di fare luce su un passato che si rivela, al contrario, sempre più oscuro; fino a scoprire che il compositore argentino, al momento della sparizione, stava lavorando sulle partiture incomplete di un compositore ebreo, di cui si erano perse le tracce quarant’anni prima, durante la Seconda guerra mondiale. Curiosamente, le biografie dei due compositori presentano molti punti in comune e le due sparizioni mostrano una certa analogia, ma a causa dell’occultamento sistematico di informazioni, della censura, delle difficoltà e del pudore nel parlare di questi fatti, è difficile capire cosa sia effettivamente accaduto. Riondino si addentra così in un labirinto di episodi personali che si intersecano inesorabilmente con i grandi eventi storici del Novecento: fatti che hanno aperto, nei paesi vittime delle barbarie fasciste, ferite non ancora del tutto rimarginate. È in parte anche per sanare queste ferite, che l’appartamento argentino sarà infine convertito, per volere della famiglia della vittima, in una casa-museo e luogo di memoria, aperto al pubblico.
Tra ricerca storica e investigazione poliziesca, Davide Carnevali architetta un gioco di variazioni letterarie e musicali, interrogandosi sul modo in cui rileggiamo il passato e scriviamo la Storia.
Da un ritratto dell’artista scomparso si amplia fino a farsi riflessione sui regimi dittatoriali che si sono riprodotti in diversi contesti storici e geografici e che possono ripetersi nel presente.
Il testo, già edito in Italia da Einaudi, è stato presentato per la prima volta alla Biennale di Monaco di Baviera e alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino nel 2018, e sarà riproposto in una nuova versione in francese alla Comédie de Caen, alla Comédie de Reims e al Théâtre de Liège, coproduttori del progetto, nella stagione 2023/24.
Per questo progetto, infatti, l’autore riscrive di volta in volta la storia, a partire dal contesto in cui il testo va in scena: Italia, Francia, Germania... ognuno di questi Paesi ha avuto una relazione specifica con i totalitarismi del XX secolo, che esige di essere problematizzata. Ma soprattutto, l’autore riscrive la storia sulla persona che la racconta, integrando nella drammaturgia elementi autobiografici dell’attore. Una drammaturgia costruita sulla memoria delle persone e dei luoghi, pensata per essere adattata di volta in volta alla biografia dell’interprete e alla città in cui è messa in scena.
Che cosa conosciamo della Storia in quanto scienza umana? In che modo è possibile sciogliere il lungo e intricato filo del tempo per poterlo ordinare nel gomitolo del nostro sapere, delle nostre cognizioni?
Se la Storia che “pratichiamo” non può dirsi eterna perché è, prima di tutto, un insieme di fatti legato alle categorie con cui lo si interpreta, allora può essere utile compiere un passo laterale, per come è espresso in un brano dell’Uomo senza qualità di Musil: «Ogni generazione si chiede stupita: chi sono e chi erano i miei antecessori? Farebbe meglio a chiedersi: dove sono io? E a tener per sicuro che gli antecessori non erano così o cosà, ma semplicemente in un altro luogo».
Dunque, dove si collocano gli altri – le figure del passato o, viceversa, del futuro? E dove noi stessi? Muovendosi lungo il crinale di una simile ottica, con Ritratto dell’artista da morto lo scandaglio di Davide Carnevali scende nelle falde profonde della storia: lo fa adattando l’indagine sulle cicatrici dei totalitarismi del Novecento ai contesti geografici che ospitano lo spettacolo e alla biografia di chi in scena incarna il racconto. Sul palco del Piccolo Teatro di Milano è Michele Riondino a intrecciare episodi personali alle vicende di due musicisti la cui siderale distanza, spaziale e cronologica, nasconde elettive affinità. Memoria e immaginazione, coscienza e cultura, cronaca e finzione arrivano a formare un unico grande complesso in cui – di fronte alla consapevolezza che “fare storia” non è mai un atto innocente – il teatro si mostra quale luogo dove è possibile “vedersi attraverso”, e far transitare il desiderio di verità.
Claudio Longhi
Le riscritture della Storia tra realtà e finzione
Una conversazione con Da vide Carnevali
Estratto dal programma di sala dello spettacolo
Davide Carnevali, come e perché sei approdato alla scrittura di Ritratto dell’artista da morto?
Sono diverse le ragioni che mi hanno portato alla creazione di questo testo. In primo luogo, ho trascorso un periodo della mia vita a Buenos Aires, entrando in relazione con persone che avevano avuto esperienza diretta della dittatura o erano parenti di chi l’aveva vissuta. Secondariamente, un altro dei luoghi della mia vita è la Germania – dove è stata rappresentata la prima versione di Ritratto dell’artista da morto, nel 2018, prima a Monaco, su commissione della Münchener Biennale - Festival für neues Musiktheter, quindi a Berlino, alla Staatsoper che lo ha coprodotto – motivo per cui la prima versione della storia si basava sulla relazione tra nazionalsocialismo e dittatura argentina. Riscrivere il testo per il Piccolo Teatro ha significato mettere in relazione quella fase politica argentina con il fascismo: capire come la violenza si ripropone nella storia sotto diverse forme e nomi. Quando vivevo a Buenos Aires e a Berlino, mi chiedevo sempre chi avesse abitato trenta, settant’anni prima, gli appartamenti in cui stavo e che cosa fosse accaduto a quelle persone. C’era, in qualche modo, una mia personale esigenza di andare a scavare nel passato recente dei luoghi in cui mi trovavo, per mettere in comunicazione la mia esperienza con quella dei testimoni che avevo incontrato.
Come ricordavi, lo spettacolo ha debuttato cinque anni fa in Germania, oggi lo rimonti in Italia, in una nuova edizione; l’anno prossimo andrà in scena in Francia, con una terza riscrittura. Ci spieghi che cosa ti appassiona, in questo processo di ricreazione di uno stesso progetto teatrale in lingue diverse e in differenti contesti culturali?
Significa, per me, esplicitare un processo che è intimamente connesso all’essenza del teatro: ogni messa in scena è una riscrittura dell’idea drammaturgico-testuale e ogni rappresentazione di uno spettacolo è la riscrittura dell’idea registica, che è una riscrittura dell’idea drammaturgica… Quando mi chiedo perché faccio teatro, mi rispondo che è in ragione delle specificità che solo questa forma d’arte possiede. Poiché lo spettacolo è sempre diverso ogni sera, è nella natura stessa del teatro l’esigenza di una riscrittura permanente che, nello spazio della rappresentazione, è deputata all’attore o all’attrice e nasce dalla sua reazione a quanto sta accadendo, quella sera, in sala. Nel caso di Ritratto dell’artista da morto, il processo di riscrittura è insito nel progetto, è integrato nella fase creativa; oltretutto, al cuore del testo sta la questione della riscrittura della Storia in generale, come delle storie particolari: è l’atto stesso della costruzione della narrazione a essere messo in analisi all’interno dello spettacolo. Ci chiediamo come vengano scritte le storie, perché siano proposte in un certo modo, che cosa comporti, a livello etico, la scelta di utilizzare alcune parole, e in che direzione tutto questo indirizzi la percezione che il pubblico ha della realtà. E ciò avviene, tanto nelle narrazioni che andiamo a creare quando produciamo dichiaratamente finzione, così come nella storia con la S maiuscola. La filosofia della storia, da Hegel a Benjamin, ma anche con Brecht, si è specificamente interrogata sulla relazione tra le tecniche con cui le finzioni sono costruite e il modo in cui il pubblico mette a frutto quel che ha visto a teatro nella quotidianità del proprio agire politico. Da questo punto di vista, il teatro è una “palestra”, è il luogo dove forniamo a spettatori e spettatrici le chiavi per decodificare la storia che stiamo costruendo, in modo che, poi, impieghino quegli strumenti per interpretare, decostruire, analizzare le finzioni proposte, ad esempio, dalla politica. Squadernare, mettere in analisi l’idea della riscrittura nel momento stesso in cui la si sta facendo diventa, in qualche modo, l’atto politico che il teatro mette in campo per noi.
Il testo e lo spettacolo, calati in un contesto di verisimiglianza storica, sono disseminati di reali spunti autobiografici, trattati però con la tecnica dell’autofinzione: è una continua sfida, per lo spettatore, andare a rintracciare il sottile confine tra verità e menzogna…
La creazione dell’intreccio, ossia della storia che raccontiamo, ha un andamento parallelo alla costruzione dello spettacolo stesso: in entrambi i casi, mettiamo in evidenza le tecniche che regolano la finzione, sia dal punto di vista narrativo, attraverso il linguaggio, sia dal punto di vista registico, smascherando i meccanismi del teatro. Non mi interessa l’autofinzione come menzogna: il mio obiettivo non è far credere allo spettatore che un’invenzione non sia tale, semplicemente perché vi ho inserito alcuni dettagli reali. È invece interessante il fatto che l’autofinzione possa produrre, parallelamente all’illusione di realtà, la coscienza della finzione: quando il pubblico riconosce che l’effetto illusorio di realtà è provocato ad arte, quando siamo in grado di far esperire al pubblico l’esperienza della costruzione fittizia, allora l’autofinzione acquista senso. Utilizzandola, rendiamo trasparenti le dinamiche che regolano l’illusione, sottolineiamo la facilità con cui siamo vittime dell’inganno e crediamo a certe storie, evidenziamo il fascino che tutte le storie esercitano su di noi, portandoci a confondere la narrazione con la realtà oggettiva. Non bisogna mai dimenticare che non esiste discorso che non sia soggettivo, costruito: dobbiamo sempre prestare attenzione a non sostituire il racconto soggettivo alla realtà oggettiva, per quanto credibile il primo possa sembrarci. All’interno dello spettacolo, rendiamo il discorso incredibile, attraverso una partitura di movimenti, gesti, meccanismi scenici alla vista, che rivelano come tutto quello che si sta raccontando sia frutto di una costruzione artificiale. Complice ideale di questo gioco è il Teatro Studio Melato, dove alcune scelte scenografiche, registiche e attorali svelano tutto quel che sta dietro alla finzione che il pubblico riceve.
Come hai lavorato alla riscrittura, a Milano, dello spettacolo?
Era necessario rimettere in discussione alcuni elementi. La riscrittura permanente di cui parlavo non riguarda la sola questione linguistica o la sostituzione dell’attore protagonista, ma ha a che fare anche con lo spazio, dal momento che il testo va, di volta in volta, riadattato alla storia del luogo in cui viene rappresentato. A Monaco, la città in cui è nato il nazionalsocialismo, abbiamo lavorato all’interno dello Schwere Reiter, oggi spazio deputato all’arte, in passato caserma militare e deposito di munizioni: è un luogo che porta inevitabilmente su di sé il peso della violenza esplicitatasi nella barbarie nazista. A Berlino la Werkstattbühne della Staatsoper, lo spazio che ci era stato assegnato, si affaccia sulla Bebelplatz, la piazza dove i nazisti bruciavano i libri. In quelle sale, abbiamo giocato con certe dinamiche, a cominciare dalla luce naturale che filtrava dalle finestre, in un rapporto tra interno ed esterno, non solo possibile, ma soprattutto carico di valenze altre. Si trattava, inoltre, di spazi non nati per il teatro: la Werkstattbühne, lo dice il nome stesso, era un laboratorio, successivamente convertito in spazio di sperimentazione teatrale. Lo Studio Melato, che è da sempre un teatro, ha tuttavia caratteristiche peculiari, sia perché tutto è a vista – e torniamo all’esplicitazione del meccanismo della finzione – sia perché offre una prossimità con il pubblico irripetibile altrove, oltre al fatto che spettatori e spettatrici diventano gli uni il pubblico degli altri e viceversa, guardandosi da un lato all’altro dello spazio scenico. Né va dimenticata la relazione con il Piccolo di via Rovello, la sede storica, con il suo portato di violenza, che in qualche modo entra nella storia raccontata.
Come hai riscritto il ruolo del protagonista sul vissuto e sulle caratteristiche di Michele Rondino?
Nell’edizione tedesca, l’interprete era un attore svizzero di origine italiana, con alle spalle un percorso di immigrazione che costituiva uno specifico elemento di interesse. Riscrivendo lo spettacolo con Michele, abbiamo preso le mosse dalla sua esperienza televisiva come protagonista della serie Il giovane Montalbano.
Questa premessa conferisce al racconto un carattere da detective story, sottolineando la componente dell’indagine poliziesca. Anche la figura del musicista, la sua biografia e lo stile delle composizioni originali eseguite hanno influito sulla riscrittura, a livello registico, delle relative scene: il livello di tensione e distensione, di pathos e leggerezza portato dai momenti musicali è molto diverso, nella versione italiana, rispetto all’edizione tedesca. A Monaco, dove lo spettacolo nasceva per un festival di musica contemporanea, avevo lavorato con un compositore argentino che aveva proposto una partitura indirizzata alla sperimentazione, da lui stesso eseguita dal vivo. A Milano, Gianluca Misiti ha composto brani che portano la marca della sua personalità musicale e insieme ci siamo divertiti a giocare con un autopiano, coinvolgendo Michele che, oltre a essere attore, è anche musicista, ma non è un pianista.
Il pubblico, in questo spettacolo, ha un ruolo che è tutt’altro dall’essere spettatore passivo. Come vorresti reagisse alla vostra proposta?
Il pubblico è parte fondamentale di ogni rappresentazione teatrale, nel senso che tutto quello che facciamo ha un orizzonte che termina nella ricezione dello spettatore e della spettatrice: diversamente, non avrebbe senso fare teatro. In sala, il pubblico ha l’opportunità di vivere un’esperienza reale, concreta, fisica, che non gli è offerta da nessun altro linguaggio artistico. Nel caso specifico di Ritratto dell’artista da morto, la questione in discussione è quella delle narrazioni e del modo in cui esse anestetizzano la percezione della realtà da parte dello spettatore e della spettatrice che, sovraesposti a parole e immagini, diventando a esse insensibili. Nel momento in cui, invece, il teatro offre loro un’esperienza reale, dando l’opportunità di entrare all’interno di una scenografia, di toccare gli oggetti che ne fanno parte, allora vedo la possibilità di un cambio di atteggiamento, rispetto all’esperienza estetica abituale. Che non significa diventare parte dello spettacolo, ma continuare a essere pubblico attraverso un modello di fruizione differente da quello normalmente esperito.
Da artista associato del Piccolo Teatro, nella stagione in corso, oltre a Ritratto dell’artista da morto, ti sei anche occupato del ciclo di spettacoli per ragazze e ragazzi Il teatro tiene banco. Come hai raccordato i vari progetti?
Mi piace accostarmi a pubblici diversi per età e background: Ritratto dell’artista da morto e le tre proposte per i più giovani hanno molto in comune, nel loro continuo appellarsi al pubblico, offrendo molteplici modalità di fruizione e mettendo in campo il tema dell’esperienza di un concetto di teatro altro, rispetto a quello che gli spettatori sono abituati a vivere. La favolosa battaglia dei topi e delle rane, che si rivolge a un pubblico di bambini e bambine molto piccoli, non può prescindere dal gioco ed è giocando che spettatrici e spettatori così particolari vivono la loro prima avventura teatrale. Con Orlando hater e Angelica furiosa, torniamo alla questione, per me fondamentale, della riscrittura della storia, della riapertura di quel materiale mitico che, in quanto tale, rischia di rimanere prigioniero, di non essere mai messo in discussione. La nostra operazione è rileggerlo con occhio contemporaneo, analizzarlo criticamente, in uno spazio – ancora il Teatro Studio Melato – in cui tutto è a vista. Di nuovo, i meccanismi della finzione sono smascherati e, attraverso questa prospettiva, l’esperienza di ragazze e ragazzi della scuola media è simile a quanto accade al pubblico di Ritratto dell’artista da morto: proposti sulla stessa scena in orari diversi della giornata, i due spettacoli non possono non dialogare. Con Antigone in cattedra, la prospettiva si capovolge: siamo noi ad andare nelle classi, sovvertendo il modo in cui studentesse e studenti vivono quotidianamente il luogo della didattica. Anche qui giochiamo con l’alternarsi di finzione e realtà e con la sovrapposizione dei piani: il livello del mito, che ci viene da Sofocle, al quale si sovrappone la nostra lettura contemporanea. Tutti e quattro gli spettacoli sono collegati, sono elementi di uno stesso progetto con identiche premesse e finalità.
Davide Carnevali (Milano, 1981)
Autore, regista e teorico del teatro, è artista associato presso il Piccolo Teatro di Milano e tutor del programma “Autori under 40” per la Biennale di Venezia Teatro.
Si è dottorato in Teoria del teatro presso la Universitat Autònoma de Barcelona, con un periodo di studi alla Freie Universität Berlin. Dal 2013 al 2020 è stato membro del Comitato di Drammaturgia del Teatre Nacional de Catalunya; dal 2018 al 2021 è stato artista residente presso ERT Emilia-Romagna Teatro Nazionale. Nel biennio 2020/21 gli è stata affidata la direzione dell’École des maîtres. Insegna Drammaturgia e Teoria del teatro alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e al Institut del Teatre di Barcelona; collabora inoltre come docente con diversi centri accademici, tra cui la Universitat Autònoma de Barcelona, Universidad de Castilla y León, Obrador de la Sala Beckett di Barcelona, Instituto 17 di Ciudad de México. Ha pubblicato numerosi articoli in riviste accademiche e specializzate, occupandosi soprattutto di teatro catalano, iberoamericano e tedesco. Ha scritto, tra gli altri: Variazioni sul modello di Kraepelin (Premio Theatertreffen Stückemarkt 2009, Premio Marisa Fabbri 2009, Premio de les Journées des auteurs de Lyon 2012); Sweet Home Europa (Schauspielhaus Bochum, 2012); Ritratto di donna araba che guarda il mare (Premio Riccione per il Teatro 2013); Actes obscens en espai públic (Teatre Nacional de Catalunya, 2017); Menelao (ERT, 2018); Goodbye Europa. Lost Words (Teatrul National Craiova, 2019).
Ha scritto e diretto, tra gli altri: Maleducazione transiberiana (Teatro Franco Parenti, 2018); Ein Porträt des Künstlers als Toter (Staatsoper Unter den Linden, 2018); Suini (Teatro Sannazaro, 2019); Lorca sogna Shakespeare in una notte di mezza estate (ERT, 2019), Ritratto dell’artista da morto (Italia ’41 – Argentina ’78) (Piccolo Teatro di Milano, 2023).
Negli ultimi anni si è inoltre occupato di una programmazione pensata specificamente per le scuole, mettendo in scena una decina di spettacoli a ERT e, attualmente, al Piccolo Teatro di Milano.
Nel 2018 gli è stato conferito il “Premio Hystrio alla Drammaturgia”, per la sua traiettoria artistica.
I suoi testi, tradotti in una quindicina di lingue, sono stati presentati nelle stagioni e festival di diversi paesi. È edito in Italia da Einaudi e Luca Sossella Editore, e in Francia da Actes Sud.
Ha inoltre pubblicato il saggio Forma dramática y representación del mundo en el teatro europeo contemporáneo (Ciudad de México, Paso de Gato, 2017) e la raccolta di racconti Il diavolo innamorato (Roma, Fandango, 2019).
OLTRE LA SCENA | Ritratto dell’artista da morto
PAROLE IN PUBBLICO
Lunedì 13 marzo, alle ore 18.30, al Chiostro Nina Vinchi, verrà presentato il libro Ritratto dell’artista da morto di Davide Carnevali (Einaudi Editore, 2022), in una conversazione tra l’autore e Francesco Filippi, storico della mentalità e autore per Bollati Boringhieri di Guida semiseria per aspiranti storici social (2022) e Mussolini ha fatto anche cose buone (2019).
Lunedì 13 marzo, ore 18.30 – Chiostro Nina Vinchi (via Rovello 2)
con Davide Carnevali e Francesco Filippi
in collaborazione con Einaudi
ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su piccoloteatro.org
SGUARDI PARALLELI
Davide Carnevali sceglie due film come “sguardi paralleli” al suo lavoro per riflettere, tra cinema e teatro, sulla dittatura argentina e la barbarie dei totalitarismi che hanno attraversato il Novecento.
Il primo, proiettato al Cinema Beltrade martedì scorso (7 marzo) era Argentina 1985 di Santiago Mitre. Il nuovo appuntamento, sempre al Beltrade, lunedì 27 marzo, alle ore 19.30 sarà con Garage Olimpo di Marco Bechis (1999). A introdurre la pellicola il regista del film, insieme a Davide Carnevali.
Lunedì 27 marzo, ore 19.30 – Cinema Beltrade (via Oxilia 10)
proiezione del film Garage Olimpo (di Marco Bechis, 1999)
incontro introduttivo con Davide Carnevali e Marco Bechis
in collaborazione con Cinema Beltrade
per info, prenotazioni e acquisti: bandhi.it/bah/beltrade
WALK_TALK | La memoria di una Casa (Italia ‘41- Argentina ‘78)
Casa della Memoria, luogo dedicato ai valori di libertà e democrazia e alla testimonianza di chi ha lottato contro il nazifascismo, alle vittime del terrorismo e delle stragi del secondo ‘900, ospita un itinerario, realizzato in collaborazione con ANPI Provinciale di Milano in cui il discorso sulla storia si aggancia alla rappresentazione di Ritratto dell’artista da morto di Davide Carnevali e ai suoi meccanismi teatrali. Italia e Argentina, l’asse temporale suggerito dal titolo dello spettacolo (1941-1978), ma anche il tema della “casa” quale luogo depositario della memoria e del suo racconto, sono i punti di partenza di una conversazione in movimento, cui si affiancheranno letture di frammenti del testo. Accanto a Davide Carnevali, la testimonianza di Alfredo Louis Somoza sugli anni della dittatura militare in Argentina, vissuti da attivista e oppositore del regime alla guida della rivista clandestina di controinformazione culturale "Viramundo”, per cui fu perseguitato fino al suo arrivo in Italia nel 1982.
domenica 26 marzo, ore 10.30 - Casa della Memoria (via Federico Confalonieri, 14)
con Alfredo Somoza e Davide Carnevali
in collaborazione con ANPI Provinciale di Milano
ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su piccoloteatro.org
PAROLE IN PUBBLICO | Tante care cose! La pallottola
Protagonisti del ciclo di incontri “Tante care cose!” sono alcuni oggetti simbolo, le “cose” scelte direttamente dagli artisti e dalle compagnie in cartellone per rappresentare i propri spettacoli.
A interrogarle, di volta in volta, una coppia di invitati speciali: esperti di ambiti diversissimi che, con la complicità di un “moderatore teatrale”, danno vita nell’arco di un’ora o poco più a un confronto dialettico tra reale e immaginario.
È “la pallottola” l’oggetto che Davide Carnevali ha scelto di mettere al centro della discussione per Ritratto dell’artista da morto. Simbolo per antonomasia della fine, di un esito infausto o, nel migliore dei casi, di una traiettoria compiuta, il proiettile, nell’opera di Carnevali, cambia di segno e si fa punto di partenza. Un innesco che alimenta una ricerca – storiografica, investigativa, procedurale – tesa a ricostruire eventi, facce e persone che intorno a quella pallottola sono gravitati.
A confrontarsi sul palco del Chiostro Nina Vinchi sono Cristina Cattaneo, Direttrice del LABANOF, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano, e Andrea Molinari, storico militare. Modera l’incontro Enrico Pitozzi, professore di Discipline dello spettacolo presso l’Università di Bologna.
mercoledì 29 marzo, ore 18 - Chiostro Nina Vinchi (via Rovello 2)
con Cristina Cattaneo e Andrea Molinari. Modera Enrico Pitozzi.
ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su piccoloteatro.org
PREPERFORMANCE_TALK
A pochi minuti dal “chi è di scena”, il pubblico e gli operatori del teatro hanno l’occasione di incontrarsi in un momento informale di confronto sui temi dello spettacolo.
martedì 21 marzo, ore 18
giovedì 30 marzo, ore 18
Piccolo Teatro Studio Melato (via Rivoli, 6 – M2 Lanza)
dal 16 marzo al 6 aprile 2023
Ritratto dell’artista da morto
(Italia ’41 – Argentina ’78)
scritto e diretto da Davide Carnevali
scene e costumi Charlotte Pistorius
luci Luigi Biondi, Omar Scala
musiche Gianluca Misiti
con Michele Riondino
assistente alla regia Virginia Landi
con la partecipazione di Gaston Polle Ansaldi
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
coproduzione Comédie de Caen - CDN de Normandie,
Comédie, Centre dramatique national de Reims, Théâtre de Liège
Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30;
domenica, ore 16. Lunedì riposo.
Durata: 90 minuti circa
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro
Informazioni e prenotazioni 02.21126116 - www.piccoloteatro.org
Nessun commento:
Posta un commento